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“TI VEDO BENE...” UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE “CALDO” NELLA CURA DEI DISTURBI DELLA CONDOTTA ALIMENTARE (di Silvia Rupolo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ti vedo bene...” è la frase che più fa arrabbiare una ragazza o un ragazzo durante il loro lungo e duro viaggio verso la guarigione da un disturbo dell’alimentazione, ma soprattutto dall’anoressia nervosa.

È un momento che arriva per tutti, prima o poi, inesorabile come un giudizio universale che rende i ragazzi, in un lampo, impauriti, scoperti, vulnerabili e capaci di sacrificare il pasto successivo per votarsi di nuovo all’astinenza di un tempo. Quella innocua frase per loro vuol solo dire: “sei grasso o grassa”. A nulla servono le nostre rassicurazioni che non riescono ad addolcire una pillola troppo amara... “la nonna voleva solo dire che sei bella ora perché hai gli occhi vispi e lucenti, sei più di compagnia, è finalmente bello stare con te...”. Niente funziona e da quel momento un solo unico obiettivo: riprendere il controllo di un corpo che li sta di nuovo tradendo perché ripugnante e sporco, che sta andando verso un’autonomia che non va bene, ascolta un piacere, dá vibrazioni troppo forti da poter essere tollerate.

Inizia così una sorta di percorso ascetico di rinuncia alle terrene sensazioni fino a che l’astinenza si installa come predominante modalità di percezione e reazione nei confronti della realtà (Nardone, 2003).

Come dice Pierre Jeammet (2006) l’anoressica “…è come un cibo surgelato che, se non ha etichette, è difficile da distinguere poiché l’ossubuco o il vitello in umido o un pesce hanno il medesimo aspetto nel freezer, se li riscaldate però, vedrete la differenza” e così è per una ragazza o una ragazza che soffre di anoressia: una volta riscaldata, ovvero quando sentirà il piacere di vivere e di relazionarsi, mostrerà la sua personalità.

Perché, pare impossibile, ma il problema non è guarire (e con questo intendo raggiungere il normo peso) ma, per la mia esperienza con ragazzi con anoressia, è come vivere con un se’ fuori che non coincide più con ciò che il se’ dentro (ideale) vorrebbe. E’ più “facile” per loro prendere peso, mangiare ciò che viene loro dato fino al raggiungimento di un determinato numero spesso ben calcolato ma poi, una volta preso quel maledetto peso, la fatica più grande è camminare per strada, andare a scuola, fare shopping (perché devi cambiare il guardaroba), farsi la doccia, sedersi su una sedia e vedere le proprie cosce. E il ciclo mestruale? Se poi torna anche quello (spesso resta silente per mesi e mesi), è davvero la fine e ci sente di nuovo inefficienti ed inconsistenti (De Clerq, 1994) come prima di dimagrire; lo sguardo (anche d’Amore) dell’Altro si posa di nuovo su di loro e ci si sente in pericolo, simili ad un feticcio da esibizione, ricettacolo di occhi bramosi e invadenti.

Se con loro si è lavorato bene fino a qui anche mediante una relazione terapeutica intensa e strutturata (e quindi non solo con la riabilitazione nutrizionale in sé, mediante i pasti assistiti), è a questo punto che lo spazio clinico del terapeuta diventa lo spazio transizionale che permette al soggetto di spostarsi da un livello fisico e corporeo ad un livello psichico utile per l’elaborazione della sofferenza. Si attua una pesa in carico “affettiva”, che fin da subito deve combattere il vuoto, il niente che questi pazienti portano; a ben guardare, è un vuoto ricco di significati e secreti nascosti che, non lo nascondo, suscitano nel terapeuta vissuti anche angoscianti.

A volte a nulla servono ragionevolezza e razionalità poiché la trappola dell’astinenza si innesca prima che la coscienza del soggetto possa intervenire.

È l’approccio multidisciplinare quello più efficace per loro perché i bisogni che presentano sono tanti: psichiatra, psicoterapeuta, nutrizionista, educatore, internista, operatore socio sanitario devono lavorare a braccetto creando con il ragazzo o la ragazza una relazione “calda”, in altre parole empatica; ve lo assicuro che solo così si possono vincere le resistenze che questi pazienti hanno a modificare, anche di una virgola, loro stessi. Il sintomo è per loro la soluzione ad un disagio intenso e allora chi glielo fa fare di perdere tutto?

Ogni giorno, quando sto con loro, mi rendo conto quanto questi pazienti siano aggrappati al loro stare male, quanto tutto ciò che vive al di sotto di ciò, faccia paura, ed in fondo non lo conoscano neanche (data la loro giovane età tanti mi dicono atterriti, di “non sapere chi sono veramente”). È più facile stare male che stare bene, aggiungono ma dicono anche di “non augurare tutto ciò neanche al loro peggiore nemico”; io dico loro che però lo regalano a se stesse ogni benedetto giorno della loro vita.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

De Clerq F. (1994), “Tutto il pane del mondo”, Bompiani, Milano.

Nardone G. (2003), Al di lá dell’amore e dell’odio per il cibo”, Rizzoli, Milano.

Jeammet P. (2006), “I disturbi alimentari in adolescenza”, seminario di formazione, a cura di Venturi V. E Melideo G., Franco Angeli, Milano. 

 

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